Per un iconologia del classico nel contemporaneo

Parte terza: Per un iconologia del classico nel contemporaneo

3) Le ragioni del classico

Cosa significa dunque parlare di classico nelle avanguardie? Abbiamo visto che questo tema è variamente interpretato dai vari artisti a seconda delle diverse correnti o dei differenti momenti storici. Tuttavia non si può semplicemente dire che c’è una visione del classico che è adatta a tutte le avanguardie storiche e un’altra che accomuna tutte le esperienze della neoavanguardia. Ne si può parlare di un filone classicista che, dotato di uno sviluppo autonomo, attraversa indifferentemente avanguardie storiche e neoavanguardie. Esistono tutt’al più delle modalità di intendere il classico che rintracciamo in maniera trasversale tra periodi storici e correnti stilistiche diverse. Queste modalità sono riconducibili a tre tipologie fondamentali: la prima come citazione accademica o come classicismo; la seconda come citazione lirica o sublime attraverso la poetica del frammento; la terza come inserimento di un richiamo inquietante.

3.1) Il rapporto con la cultura neoclassica e accademica (Paolini, Mariani, Pistoletto, Dalì e Ray)

Il primo modo, in quanto è quello più praticato, in cui l’interesse per il classico si manifesta nelle avanguardie è attraverso la citazione accademica. Questa può essere di tipo assolutamente superficiale come invece profonda. Un esempio tipico dell’atteggiamento superficiale è quello dell’uso della Venere di Milo praticato più volte nel corso delle avanguardie storiche. In questo caso infatti abbiamo a che fare con il prodotto esteriore della cultura accademica e anche con uno scarso approfondimento del significato storico della cultura delle Accademie. Infatti la cultura delle Accademie d’arte ha avuto il merito di diffondere in tutta Europa alcune statue elette a modello che sono servite da portabandiera del classicismo, diffondendolo e innalzandolo a cultura comune. Sappiamo che molte statue sono diventate così dei veri e propri simboli di un certo modo di intendere la bellezza, la grazia, la forza, la femminilità. Si pensi così alla diffusione di statue come l’Apollo Belvedere, il Lacoonte, il Fauno Barberini, il Torso Belvedere, per non citarne che alcune. Queste statue sono andate a stabilire i canoni della muscolatura, del dinamismo, della posatezza e così via per generazioni di disegnatori e scultori che le hanno studiate spesso attraverso copie e riproduzioni. Tra le copie vanno ricordate innanzi tutto i calchi in gesso che sono stati raggruppati nelle gipsoteche, le quali hanno costituito in molte città d’Europa la presenza di una sorta di museo virtuale di tutte le meraviglie scultoree dell’antichità. Ciò ha permesso il contatto pressoché diretto con le statue antiche e ha contribuito in maniera significativa a fare dello stile classico l’esperanto artistico della cultura Europea. Questo aspetto della formazione delle gipsoteche e dell’uso conseguente del calco in gesso è importante per capire il modus operandi di molti artisti che hanno militato all’interno delle avanguardie. L’unico limite, sta nel fatto che queste gipsocopie sono state spesso relegate, cosi come le fotocopie per la pittura e il disegno, al rango di meri oggetti comuni da trasformare in ready-made. Prima però di passare a questo aspetto occorre puntualizzare il ruolo giocato anche da altre forme di copia dei classici. Parliamo delle riproduzioni in scala e delle illustrazioni. Infatti, parallelamente alla circolazione dei calchi troviamo anche una ricca circolazione di statuette in miniatura riproducenti le statue più note e importanti. Ne circolano in vari materiali, spesso in bronzo, e di vari livelli di qualità. A queste debbono poi essere associate le illustrazioni, costituite soprattutto da stampe. Infatti la diffusione della stampa, soprattutto nel corso dell’Ottocento offrirà per la prima volta la visione di tali statue a un largo pubblico. Ciò che prima era accessibile solo a pochi si avvia così a diventare luogo comune. Giungendo ai primi del Novecento, l’epoca in cui si muovono gli artisti delle avanguardie storiche, troviamo una situazione in cui quella cultura elitaria propugnata dalle accademie si è ormai trasformata grazie alla larga diffusione in una cultura decadente che, aprendosi, agli strati sociali più bassi, inclina al banale e al luogo comune. Nel frattempo poi altre sculture hanno superato in fama quelle dei musei italiani. Tipico è il caso della Nike di Samotracia e della Venere di Milo collocate entrambe al Louvre. La seconda soprattutto conosce un successo strepitoso in quanto viene ritenuta il modello delle forme femminili, anche dal punto di vista letterale dei centimetri del girovita, dei fianchi e del seno. Essa diviene così uno dei pilastri dell’arte occidentale e, come accade in pittura per la Gioconda, si appresta a simbolizzarla pur nella forma degradata del luogo comune. C’è dunque nel riferimento al classico ereditato dalla cultura accademica la possibilità di una doppia lettura: la prima, come elemento colto che ha strutturato l’intera cultura artistica europea e la seconda come elemento banale, simbolo di una cultura degradata e stantia. Alla prima accezione fanno riferimento autori come Paolini e, in modo diverso, Mariani in quanto prendono il discorso dell’accademia “sul serio”. Alla seconda accezione fanno invece riferimento in primo luogo Man Ray e Dalì e poi in maniera meno diretta tutti quelli che si sono rifatti all’ironia dada e cioè Patella, Pisani e forse anche il Pistoletto della Venere degli stracci.

3.2) La classicità come anima lirica del moderno (Kounellis, Anne e Patrick Poirer, Finlay, Parmiggiani)

Un’altra modalità di approccio al classico è quella che guarda al classico e in particolare all’antichità greca e romana come alle proprie radici culturali. Il fatto che si pensi al passato, al mondo degli antichi come a alle proprie radici però non implica necessariamente un senso di tranquilla continuità, come avviene in altre culture, come ad esempio quelle orientali, in cui le radici culturali coincidono con le tradizioni che vengono perpetuate da tempo immemomere. Nel caso dell’Occidente è avvenuto qualcosa di diverso: c’è stata una ferita. Questa ferita è dovuta all’arrivo del pensiero cristiano che ha provocato la fine della cultura pagana. Certo non tutto ciò che faceva parte della cultura antica è andato perduto; l’arte, la filosofia, la letteratura, il diritto si sono salvati, ma in ogni caso la rottura è stata drammatica tanto più che è stata sottolineata e aggravata anche dalla rottura storica costituita dalle invasioni barbariche. Da allora il mondo antico è come un’infanzia perduta.

Questo tema è stato sviluppato in maniera molto forte ed evidente dal romanticismo. Se prima c’era un mondo che viveva in una relazione spontanea con la natura, dopo c’è invece il mondo della nostalgia. Questo sentimento della frattura è anche ciò che sta alla base dell’estetica delle rovine. Le rovine infatti per il romantico hanno una loro sublime bellezza, il loro spettacolo suscita un misto di sentimenti di tristezza, grandiosità, pathos. Per questo motivo si può parlare di una visione lirica del classico. Qui infatti l’aspetto dominante è quello sentimentale e poetico. Esso può oscillare da un carattere leggero, epigrammatico a un carattere grave e tragico ma è comunque chiaro che rimane un comune filo di romantica nostalgia che pervade anche espressioni così diverse. Quattro autori esprimono in particolare questa modalità e tutti lo fanno in maniera diversa. Ciò accade per l’espressione poetica che è sempre altamente personalizzata. Essi sono Kounellis, i Poirier (se li vogliamo considerare come un unico autore), Finalay e Parmiggiani. In Kounellis forse troviamo l’espressione più grave e in alcuni casi anche tendente al tragico. La forza della sua poetica scaturisce proprio dal contrasto tra la dimensione umana e originaria della civiltà greca (non dimentichiamo che lui è un greco) e quella disumana e alienata della civiltà industriale. In questa tensione si scatena un dissidio insanabile, che è tragico proprio per l’impossibilità di ricucirlo o di risolverlo in una qualche forma di sintesi. Anche i Poirier esprimono un carattere tragico, ma non legato tanto alla tensione del contrasto quanto alla terribilità del disastro. Le visioni che loro ricostruiscono con pignola maestria sono gli scenari di una catastrofe da cui emana il sublime senso di una grandezza stroncata dal tempo e da quella frattura religiosa e culturale di cui abbiamo parlato. L’uomo moderno è capace di costruire cose più grandi di quelle, eppure ancora rimane ammirato da quella monumentalità di costruzioni che pur essendo più piccole nelle dimensioni, di quanto non lo siano i nostri, erano però ben più grandi per l’eroicità dell’impresa e per la pienezza di significato. Finlay è invece lirico nel senso più specifico del termine. La sua poetica ha una dimensione riservata, privata, anche in lui c’è però la memoria elegiaca di un’eleganza e di una grazia che il nostro mondo ha perduto e che può far rivivere solo nella dimensione privata del suo giardino e della sua vita ritirata a Little Sparta nelle Higlands della Scozia, così lontane dai centri di emanazione della cultura classica. Questa lontananza questo spiazzamento del classico in una terra fredda in cui è assente la solarità che lo ha generato le conferisce un particolare pathos decadente e sottolinea una volta di più questo dato irrecuperabile della frattura. Venendo infine a Parmiggiani troviamo il tipo di poeticità meno sofferente. Le sue opere hanno il carattere di un componimento epigrammatico alessandrino. Questo perché esse non sono mai grandi, monumentali e seriose, né struggenti o melanconiche, ma al contrario sono allegre e colorate. Esse sono, dicevamo, alessandrine, perché poi a questa vivacità poetica aggiungono la ricercatezza del riferimento culturale raffinato. Tuttavia anche in Parmiggiani accanto a questo vivace senso poetico privo di rimpianti si avverte il senso della frattura attraverso il ricorso al calco, che ci ricorda che comunque il classico è una materia morta non più soggetta a crescita ma solo alla citazione. In tal modo Parmiggiani si pone come punto di congiunzione tra la mentalità citazionista e quella lirica.

3.3) La chiave nicciana e l’enigmaticità del classico (De Chirico, Savinio, Delvaux, Resnais, Greeneway)

Un’ultima modalità è quella che legge il classico non come un elemento morto di cui piangere la fine, né come un semplice pezzo della cultura ufficiale da citare, ma come una sotterranea corrente culturale che continua ad operare nella nostra cultura cristianizzata e che si lascia cogliere ormai genuinamente solo come elemento misterioso ed enigmatico, in quanto irrompe come una piega o uno squarcio nel tessuto culturale della modernità. Ricorrendo a una semplificazione storica potremmo dire che la modalità accademica corrisponde all’immagine del classico diffusasi in Europa nel Settecento, in quanto guardava all’antichità come civiltà razionale, ordinata e solare. L’antichità quindi è il regno dei modelli che vanno studiati nelle loro proporzioni equilibrate. Questa si candida a divenire cultura ufficiale in quanto propone una visione positiva dello stato e dell’arte. La modalità lirica corrisponde invece alla prima metà dell’Ottocento in cui imperversa appunto l’idea romantica di una separazione tra l’incanto del mondo antico e il realismo del mondo moderno. La modalità enigmatica è quella che invece trova dei tratti di continuità tra modernità e antichità non sotto il segno delle positività razionali ma sotto quello dell’inquietudine e dell’irrazionalità. L’elemento antico diviene inquietante perché esso ci è familiare in quanto il classicismo ce lo ha reso tale ma allo stesso tempo estraneo in quanto ne scopriamo degli elementi selvaggi. Il dionisiaco esprime appunto questo lato oscuro della grecità e Nietzsche ne fa un grimaldello per scardinare la visione precedente basata sul candido e ingenuo sentimento della natura, illuminato da un altrettanto candida e razionale ricerca dell’equilibrio. Nietzsche riscopre una Grecia tanto melanconica ed instabile quanto l’Occidente contemporaneo, anche se le modalità in cui questa si manifesta divergono. I fratelli De Chirico, forse grazie all’infanzia trascorsa in quei luoghi hanno una visione del classico meno idealizzata e più pronta ad accettarne gli aspetti irrazionali che Nietzsche ne mette in luce. Giorgio de Chirico in particolare coglie il carattere melanconico del meriggio nicciano mettendolo in sintonia con la propria melanconia e quella della cultura classica che intende evocare. Ne risulta un’atmosfera carica di cupa tensione, come se fosse il preavvertimento di qualcosa di terribile. Una terribilità che ora si sa non essere più in contrasto con l’essenza della cultura classica. Savinio sottolinea invece, più che una tensione melanconica, uno scatenamento di una realtà delirante che si intravede dalle crepe del reale e che è per questo metafisica. Sia nel caso di De Chirico che di Savinio questa realtà “altra”, sia essa melanconica o sia essa stolida e scombussolata, non è sprofondata nella virtualità di un passato da citare, ma è presente, contemporanea alla vita dell’artista. Quindi De Chirico anche quando copia accademicamente le statue non è mai un vero accademico perché esso non si limita mai a portare una citazione precisa e corretta, ma al contrario egli tenta semplicemente di descrivere il suo universo visionario. Savinio addirittura si spingerà a disegnare gli Dei che si affacciano tra i palazzi di Roma. Il surrealismo non saprà cogliere che in parte questa impostazione, in quanto scinde questo universo delirante e visionario dal classico, modernizzandolo e riducendo il trapassamento nella dimensione mitica a un’incursione nella dimensione secolarizzata dell’inconscio. Lo scambiare il mito per l’inconscio significa, tra l’altro, cercare, seppure involontariamente, di disinnescare il potenziale esplosivo di una dimensione culturale (e quindi collettiva) non cristiana e non moderna, dentro la società occidentale del Novecento, per ridurla a una dimensione personale, individualista e moderna, di certo più compatibile con la concezione protestante dell’individuo tipica del liberalismo. La psicoanalisi ha costitutivamente un progetto normalizzatore al quale non ci si può sottrarre, neanche rivendicando la libertà dell’inconscio, perché già parlare di inconscio significa riconoscere come sconfitte le ragioni di un mondo talmente altro da essere profondamente incompatibile con l’individualismo borghese. Tra tutte le prospettive del classico questa è sicuramente la più vivace e disturbante. Certo essa non è rivoluzionaria di per sé, nel senso sociale del termine, ma è problematica proprio dal punto di vista della concezione della normalità. Anzi è interessante notare come essa emerga in situazioni in cui non è contemplata una rivolta sociale ed possibile solo una rivolta interiore che si manifesta come angoscia, come terribilità, come incombenza, come pericolo dell’annullamento del tempo. Anche in Alain Resnais si avverte la stessa tensione. La cornice architettonica classica di Marienbad e dei suoi giardini sono la quinta perfetta di un incubo da cui è impossibile uscire, in cui il tempo mentale dell’immaginazione usurpa e sopravanza quello reale dei nessi causa-effetto. Così si ha la sensazione di girare a vuoto, come di una catena che non si addentella sull’ingranaggio del tempo lineare. Si tratta di situazioni oniriche in senso surrealista, ma anche di situazioni mitiche in senso metafisico. Lo stesso discorso può essere fatto per i quadri di Delvaux in cui non c’è evoluzione, in cui il tempo si arresta per raccontare sotto infiniti punti di vista diversi, sempre la stessa storia incongruente dominata più meno sempre dagli stessi personaggi. La modernità non sopporta il tempo statico della cultura arcaica e questo gli si ripresenta angosciosamente. Un discorso simile può essere fatto anche per l’intreccio giallistico, tanto arguto quanto in fondo insensato, dei Giardini di Compton House o di Giochi nell’acqua di Peter Greenaway. Qui il classico manifesta il suo portato angoscioso ed inquietante legandosi direttamente alla morte che è collocata in un quadro generale di indifferenza per il tempo lineare a favore di quello delle concatenazioni simboliche. D’altronde non si dice classico ciò è “massimo” al di là dello scorrere del tempo?