Jannis Kounellis

Jannis Kounellis

Jannis Kounellis è nato in Grecia, come i fratelli De Chirico, ma a differenza di questi ultimi Kounellis è un greco a tutti gli effetti. Nato al Pireo nel 1936 è condizionato nella sua giovinezza da due filoni culturali: il primo è quello dell’arte novecentesca greca, la quale si porta sempre dietro strascichi di classicismo accademico; il secondo influsso è invece quello dell’informale che assorbe in particolar modo nel momento in cui arriva in Italia nel 1956. La seconda metà degli anni Cinquanta sono in Italia degli anni molto densi di ricerche artistiche. E’ questo il periodo in cui nasce Forma 1, in cui si ritorna a guardare alle esperienze delle avanguardie storiche, siano esse quelle di tipo strutturalista della tradizione del formalismo della Bauhaus o siano esse invece quelle di estrazione dadaista.

Per quanto riguarda le influenze di tipo informale Kounellis è interessato soprattutto agli aspetti materici ad esempio dell’arte di un Burri ma è anche interessato alle sperimentazioni di un Fontana che tendono ad andare oltre la superficie del quadro. Di questo periodo è significativa ad esempio un’opera fatta di semplici bottiglie vecchie adagiate su una tavola di compensato. In quest’opera, che è datata 1957 e che di poco posteriore al suo arrivo a Roma si può già intravedere quella linea di continuità che congiunge l’informale materico all’oggettualismo new-dada. Questa ripresa di elementi diretti dalla realtà diventa per l’artista greco un’acquisizione fondamentale su cui poi svilupperà tutto il suo lavoro poetico. La ripresa dell’elemento reale, non la meta di una ricerca, com’era stato per la generazione precedente alla sua. Il reale riportato non è un “non-importa-che” come nel ready made, ma diviene un vocabolario per la costruzione di una poetica che ha anche intensi tratti lirici. All’inizio la sua attenzione si rivolge ai segni: frecce, numeri, lettere. Sembra che l’artista sia interessato dal cosiddetto paesaggio urbano; un paesaggio che si contraddistingue da quello agreste per la sua natura semiotica. Ciò a cui si rifà Kounellis è la giungla delle scritte, dei numeri, dei segnali. Possiamo dire che questo è un momento in cui si cerca un’uscita dall’informale in vista di un tipo di comunicazione nuova, che ha vari esiti, tra cui la pop-art. Ma in Kounellis questo cammino che è portato avanti fino alla metà degli anni 60 comincia a deviare dalla scritta di tipo pubblicitario in favore di rinnovato interresse per la materia o per gli elementi naturali. Anzi sarebbe meglio dire che l’attenzione di Kounellis si va focalizzando sul contrasto tra elemento naturale ed elemento industriale. Un fiore in ferro con al centro una fiamma all’acetilene è uno dei più eclatanti segni di questa virata. Il passo successivo sarà quello di portare direttamente il vivente in un contesto artistico: lo farà in un primo momento con un pappagallo e in un secondo momento con l’eclatante esposizione dei cavalli alla galleria L’Attico di Roma nel 1969. Nel frattempo Kounellis approfondisce la sua analisi delle possibilità di composizione poetica a partire da materiali presi dalla realtà. Le sue opere hanno per oggetto il carbone, la lana, il cotone, i sacchi (come quelli di Burri), le piante grasse ecc.. L’uso di questi elementi evoca un non-so-che di primario e di fondamentale che si riconnette alle sperimentazioni analoghe che in quel periodo venivano condotte da artisti come Robert Morris in mostre come Primary Structures o in tendenze come l’anti-form. Già qui si può intravedere una poetica dell’originario che però ancora rimane espressa in modo molto semplice e minimale attraverso la presentazione di tali materiali su basi si metallo di tipo industriale o, come nel caso delle “lane”, attaccate a strutture di legno o a teli di iuta. C’è quindi un forte richiamo al mondo del lavoro sia esso quello rurale che quello industriale come se si volesse insistere su quella che nelle scienze storiche è stata chiamata la “cultura materiale”. A partire dal 1969 Kounellis comincia anche a creare delle composizioni di oggetti e materiali: prende la rete di un letto e vi pone sopra del cotone e poi su di un’altra rete, a fianco, vi pone delle piastrelle con la metaldeide accesa. L’effetto è quello dello scheletro di un letto su cui brillano tante fiammelle. Qui ormai il semplice materismo è superato, né ci troviamo alle prese con una composizione surrealista o dada. L’incontro dei materiali non è casuale o semplicemente illogico, non è assurdo, né ha la stravaganza del sogno. Non ci sono valori inconsci come nel surrealismo, ma al contrario c’è una precisa volontà compositiva, gli oggetti vengono congiunti come le parole di un epigramma e vanno a creare un preciso effetto di contrasto evocativo, in una poesia della materia. Lo stesso discorso si fa ancor più chiaro con l’impiego di “materiale” umano come nell’opera del 1970 in cui una modella giace distesa su un parallelepipedo di ghisa, coperta da un manto da cui sporge solo un piede a cui è collegata un cannello di acetilene acceso. Da qui in poi Kounellis ha ormai trovato il suo linguaggio che si distanzia enormemente dal modo di sentir dei suoi colleghi americani e che ha trovato una formula europea di trattare il rapporto tra natura e società industriale con una tonalità che ci si può azzardare a definire cupamente tardo-romantica. In effetti se le opere degli americani sono inespressive queste invece sono volutamente espressive anche attraverso la presentazione dei semplici materiali. Se gli americani sono astorici l’opere di Kounellis è invece storicamente porosa e profonda in quanto ogni sua installazione è impregnata di vissuto e di memoria. Una volta trovato questo nuovo modo di comporre, Kounellis, lo usa liberamente. Sempre del 1969 è un’opera in cui l’artista prende una lastra di ghisa su cui scrive col gesso “Libertà o Morte, W Marat, W Robespierre” e vi appone una candela accesa poggiata su una mensola. Il messaggio è riferito letteralmente alla rivoluzione francese, ma è chiaro che è ispirato ai moti di piazza del ’68. In questo caso si possono fare due considerazioni: primo, l’artista mostra di aver superato qualsiasi rigidità formalistica di matrice informale. Il metallo, come il gesso o la candela, non hanno un valore formale né semplicemente materico. Essi sono materiali compostivi che vengono usati in un modo simbolico estremamente libero, ma allo stesso tempo estremamente sensato. Secondo, Kounellis mostra di parlare un vocabolario artistico pieno di storia, di riferimenti colti. Tali riferimenti alla storia d’Europa e alla cultura in generale, li ritroviamo in altre opere in cui l’artista si rivolge all’ambito musicale, con citazioni da Mozart , Verdi , Bach o Stravinskij. E’ in queste opere che incontriamo l’ingresso della tematica del classico. In un’opera del 1972 vengono presentate due cabine: in una c’è un flautista che esegue un brano di Mozart e nell’altra c’è l’artista stesso che si copre il volto con una maschera in gesso ricavata dal calco di una statua classica. Qui occorre fare un’osservazione, infatti, il classico, come pure la musica, si presenta nella pura forma della citazione. L’oggetto classico, il frammento dell’antichità non viene emulato, ripreso, ma campionato attraverso il calco. Abbiamo così quello stesso tipo di calco che Man Ray aveva ridotto a ready-made. Il calco in gesso è quindi ridotto ad oggetto, ma, come avviene per altri oggetti o materiali, Kounellis trova il modo per restituirgli una scomponibilità poetica. In questo modo la strada intrapresa con la composizione dei materiali torna a ricongiungersi con le influenze della cultura greca moderna (che a sua volta risente dell’influenza dell’antico). Il tutto non porta a una riedizione del classicismo né a uno snaturamento del classico (come avviene nel ready made dadaista), ma a una nuova sintesi poetica in cui il contrasto tra gli oggetti – siano essi quelli dell’industria, della natura o della memoria culturale – è capace di far scaturire un nuovo lirismo. Una delle operazioni più riuscite, in questo contesto, è un’installazione performance del 1973, dedicata ad Apollo (in quanto la maschera è la copia dell’Apollo Belvedere). In essa si vede un tavolo su cui stanno i frammenti (in calco) di una statua greca. Ai lati del tavolo stanno un flautista, che, come nell’opera precedente, suona un brano di Mozart e un corvo impagliato appoggiato sul busto della statua. Al centro invece c’è ancora una volta l’artista con il volto coperto dalla stessa maschera di gesso dell’opera precedente. In quest’opera c’è come una tensione misterica, con il corvo simbolo tanatologico e il corpo smembrato che aspira a una ricomposizione. Ragion per cui tutta la composizione sembra alludere a un desiderio di rinascita, anche se questa rinascita non è la reincarnazione cristiana ma, come dice Kounellis stesso, un “rivivere gli scopi”. Questo rivivere o vivificare gli scopi e gli ideali è ciò che si lega alla musica di Mozart, che Kounellis considera uno spirito illuminista. Ciò nonostante nell’opera aleggia un’atmosfera enigmatica e oracolare che solo un greco avrebbe potuto trasmettere. Kounellis inoltre tiene a precisare che il suo modo di trattare il classico non vuole mai essere aulico e a tal proposito cita una lettera di Goya a David in cui il primo rimprovera al secondo di aver voluto dare una rappresentazione “classica” di Maria Antonietta che va al patibolo. Dice Kounellis: « Lì si capisce che Goya è Liberale e David aulico. A me interessa affermare la libertà della tragedia, perché il dramma rappresenta una condizione borghese, mentre la tragedia ha ragioni divine e motivazioni storiche immense» . David aveva disegnato Maria Antonietta con il viso ovale, gli occhi a mandorla. Egli aveva cioè applicato per l’ennesima volta i canoni neoclassici. Il suo accademismo aveva trionfato sulla rappresentazione della realtà e gli ha impedito di cogliere quel fugace senso di paura che traspariva dal suo volto, il quale è stato invece colto da Goya. Quindi, il classico di Kounellis non può essere confuso in alcun modo con il classicismo accademico con il quale lui è in completa rottura. Egli non concede margini di dubbio o di connivenza come accade per De Chirico prima e Mariani poi. Egli denuncia ogni effetto drammatico (nel senso retorico del termine) come borghese. Il “drammatico” che lui denuncia è dunque quello manierato, a cui egli contrappone il “tragico” che ha una profondità sacrale. E’ proprio nella ricerca di questa poeticità tragica, che scaturisce dalle contrapposizioni e dai recessi dell’animo umano, che va letta l’introduzione di elementi tratti dall’antichità classica nell’opera di Kounellis. L’artista greco insiste sulle maschere e sui volti anche in altre occasioni senza l’utilizzo della musica. Il volto è infatti un elemento fondamentale nella sua poetica. Egli afferma che la maschera greca ha la stessa funzione che ha nel teatro giapponese. La maschera non è qualcosa che si cambia a seconda della situazione, la maschera stabilisce il ruolo e l’identità. Essa è plasmata su quel ruolo e quindi in un certo senso essa contiene il destino stesso di quel personaggio. Spesso egli propone dei volti in gesso (calchi di statue antiche) esposti con delle striature di fuliggine, fatte probabilmente con il fumo delle candele. In un’altra situazione l’artista afferma che il fumo è cristiano. E in effetti tali opere sembrano riproporre la problematica romantica del contrasto tra età cristiana ed età antica. L’età antica aveva un rapporto con la natura che il cristianesimo ha distrutto, esso perciò si frappone come un’ombra tra noi e l’antichità classica. Il fumo che segna queste sculture sembra proprio questo frapporsi del cristianesimo a un pieno recupero dell’antichità classica.