Le neoavanguardie

La sensibilità classica nelle neoavanguardie

Le neoavanguardie

Jannis Kounellis

Jannis Kounellis è nato in Grecia, come i fratelli De Chirico, ma a differenza di questi ultimi Kounellis è un greco a tutti gli effetti. Nato al Pireo nel 1936 è condizionato nella sua giovinezza da due filoni culturali: il primo è quello dell’arte novecentesca greca, la quale si porta sempre dietro strascichi di classicismo accademico; il secondo influsso è invece quello dell’informale che assorbe in particolar modo nel momento in cui arriva in Italia nel 1956. La seconda metà degli anni Cinquanta sono in Italia degli anni molto densi di ricerche artistiche. E’ questo il periodo in cui nasce Forma 1, in cui si ritorna a guardare alle esperienze delle avanguardie storiche, siano esse quelle di tipo strutturalista della tradizione del formalismo della Bauhaus o siano esse invece quelle di estrazione dadaista.

Per quanto riguarda le influenze di tipo informale Kounellis è interessato soprattutto agli aspetti materici ad esempio dell’arte di un Burri ma è anche interessato alle sperimentazioni di un Fontana che tendono ad andare oltre la superficie del quadro. Di questo periodo è significativa ad esempio un’opera fatta di semplici bottiglie vecchie adagiate su una tavola di compensato. In quest’opera, che è datata 1957 e che di poco posteriore al suo arrivo a Roma si può già intravedere quella linea di continuità che congiunge l’informale materico all’oggettualismo new-dada. Questa ripresa di elementi diretti dalla realtà diventa per l’artista greco un’acquisizione fondamentale su cui poi svilupperà tutto il suo lavoro poetico. La ripresa dell’elemento reale, non la meta di una ricerca, com’era stato per la generazione precedente alla sua. Il reale riportato non è un “non-importa-che” come nel ready made, ma diviene un vocabolario per la costruzione di una poetica che ha anche intensi tratti lirici. All’inizio la sua attenzione si rivolge ai segni: frecce, numeri, lettere. Sembra che l’artista sia interessato dal cosiddetto paesaggio urbano; un paesaggio che si contraddistingue da quello agreste per la sua natura semiotica. Ciò a cui si rifà Kounellis è la giungla delle scritte, dei numeri, dei segnali. Possiamo dire che questo è un momento in cui si cerca un’uscita dall’informale in vista di un tipo di comunicazione nuova, che ha vari esiti, tra cui la pop-art. Ma in Kounellis questo cammino che è portato avanti fino alla metà degli anni 60 comincia a deviare dalla scritta di tipo pubblicitario in favore di rinnovato interresse per la materia o per gli elementi naturali. Anzi sarebbe meglio dire che l’attenzione di Kounellis si va focalizzando sul contrasto tra elemento naturale ed elemento industriale. Un fiore in ferro con al centro una fiamma all’acetilene è uno dei più eclatanti segni di questa virata. Il passo successivo sarà quello di portare direttamente il vivente in un contesto artistico: lo farà in un primo momento con un pappagallo e in un secondo momento con l’eclatante esposizione dei cavalli alla galleria L’Attico di Roma nel 1969. Nel frattempo Kounellis approfondisce la sua analisi delle possibilità di composizione poetica a partire da materiali presi dalla realtà. Le sue opere hanno per oggetto il carbone, la lana, il cotone, i sacchi (come quelli di Burri), le piante grasse ecc.. L’uso di questi elementi evoca un non-so-che di primario e di fondamentale che si riconnette alle sperimentazioni analoghe che in quel periodo venivano condotte da artisti come Robert Morris in mostre come Primary Structures o in tendenze come l’anti-form. Già qui si può intravedere una poetica dell’originario che però ancora rimane espressa in modo molto semplice e minimale attraverso la presentazione di tali materiali su basi si metallo di tipo industriale o, come nel caso delle “lane”, attaccate a strutture di legno o a teli di iuta. C’è quindi un forte richiamo al mondo del lavoro sia esso quello rurale che quello industriale come se si volesse insistere su quella che nelle scienze storiche è stata chiamata la “cultura materiale”. A partire dal 1969 Kounellis comincia anche a creare delle composizioni di oggetti e materiali: prende la rete di un letto e vi pone sopra del cotone e poi su di un’altra rete, a fianco, vi pone delle piastrelle con la metaldeide accesa. L’effetto è quello dello scheletro di un letto su cui brillano tante fiammelle. Qui ormai il semplice materismo è superato, né ci troviamo alle prese con una composizione surrealista o dada. L’incontro dei materiali non è casuale o semplicemente illogico, non è assurdo, né ha la stravaganza del sogno. Non ci sono valori inconsci come nel surrealismo, ma al contrario c’è una precisa volontà compositiva, gli oggetti vengono congiunti come le parole di un epigramma e vanno a creare un preciso effetto di contrasto evocativo, in una poesia della materia. Lo stesso discorso si fa ancor più chiaro con l’impiego di “materiale” umano come nell’opera del 1970 in cui una modella giace distesa su un parallelepipedo di ghisa, coperta da un manto da cui sporge solo un piede a cui è collegata un cannello di acetilene acceso. Da qui in poi Kounellis ha ormai trovato il suo linguaggio che si distanzia enormemente dal modo di sentir dei suoi colleghi americani e che ha trovato una formula europea di trattare il rapporto tra natura e società industriale con una tonalità che ci si può azzardare a definire cupamente tardo-romantica. In effetti se le opere degli americani sono inespressive queste invece sono volutamente espressive anche attraverso la presentazione dei semplici materiali. Se gli americani sono astorici l’opere di Kounellis è invece storicamente porosa e profonda in quanto ogni sua installazione è impregnata di vissuto e di memoria. Una volta trovato questo nuovo modo di comporre, Kounellis, lo usa liberamente. Sempre del 1969 è un’opera in cui l’artista prende una lastra di ghisa su cui scrive col gesso “Libertà o Morte, W Marat, W Robespierre” e vi appone una candela accesa poggiata su una mensola. Il messaggio è riferito letteralmente alla rivoluzione francese, ma è chiaro che è ispirato ai moti di piazza del ’68. In questo caso si possono fare due considerazioni: primo, l’artista mostra di aver superato qualsiasi rigidità formalistica di matrice informale. Il metallo, come il gesso o la candela, non hanno un valore formale né semplicemente materico. Essi sono materiali compostivi che vengono usati in un modo simbolico estremamente libero, ma allo stesso tempo estremamente sensato. Secondo, Kounellis mostra di parlare un vocabolario artistico pieno di storia, di riferimenti colti. Tali riferimenti alla storia d’Europa e alla cultura in generale, li ritroviamo in altre opere in cui l’artista si rivolge all’ambito musicale, con citazioni da Mozart , Verdi , Bach o Stravinskij. E’ in queste opere che incontriamo l’ingresso della tematica del classico. In un’opera del 1972 vengono presentate due cabine: in una c’è un flautista che esegue un brano di Mozart e nell’altra c’è l’artista stesso che si copre il volto con una maschera in gesso ricavata dal calco di una statua classica. Qui occorre fare un’osservazione, infatti, il classico, come pure la musica, si presenta nella pura forma della citazione. L’oggetto classico, il frammento dell’antichità non viene emulato, ripreso, ma campionato attraverso il calco. Abbiamo così quello stesso tipo di calco che Man Ray aveva ridotto a ready-made. Il calco in gesso è quindi ridotto ad oggetto, ma, come avviene per altri oggetti o materiali, Kounellis trova il modo per restituirgli una scomponibilità poetica. In questo modo la strada intrapresa con la composizione dei materiali torna a ricongiungersi con le influenze della cultura greca moderna (che a sua volta risente dell’influenza dell’antico). Il tutto non porta a una riedizione del classicismo né a uno snaturamento del classico (come avviene nel ready made dadaista), ma a una nuova sintesi poetica in cui il contrasto tra gli oggetti – siano essi quelli dell’industria, della natura o della memoria culturale – è capace di far scaturire un nuovo lirismo. Una delle operazioni più riuscite, in questo contesto, è un’installazione performance del 1973, dedicata ad Apollo (in quanto la maschera è la copia dell’Apollo Belvedere). In essa si vede un tavolo su cui stanno i frammenti (in calco) di una statua greca. Ai lati del tavolo stanno un flautista, che, come nell’opera precedente, suona un brano di Mozart e un corvo impagliato appoggiato sul busto della statua. Al centro invece c’è ancora una volta l’artista con il volto coperto dalla stessa maschera di gesso dell’opera precedente. In quest’opera c’è come una tensione misterica, con il corvo simbolo tanatologico e il corpo smembrato che aspira a una ricomposizione. Ragion per cui tutta la composizione sembra alludere a un desiderio di rinascita, anche se questa rinascita non è la reincarnazione cristiana ma, come dice Kounellis stesso, un “rivivere gli scopi”. Questo rivivere o vivificare gli scopi e gli ideali è ciò che si lega alla musica di Mozart, che Kounellis considera uno spirito illuminista. Ciò nonostante nell’opera aleggia un’atmosfera enigmatica e oracolare che solo un greco avrebbe potuto trasmettere. Kounellis inoltre tiene a precisare che il suo modo di trattare il classico non vuole mai essere aulico e a tal proposito cita una lettera di Goya a David in cui il primo rimprovera al secondo di aver voluto dare una rappresentazione “classica” di Maria Antonietta che va al patibolo. Dice Kounellis: « Lì si capisce che Goya è Liberale e David aulico. A me interessa affermare la libertà della tragedia, perché il dramma rappresenta una condizione borghese, mentre la tragedia ha ragioni divine e motivazioni storiche immense» . David aveva disegnato Maria Antonietta con il viso ovale, gli occhi a mandorla. Egli aveva cioè applicato per l’ennesima volta i canoni neoclassici. Il suo accademismo aveva trionfato sulla rappresentazione della realtà e gli ha impedito di cogliere quel fugace senso di paura che traspariva dal suo volto, il quale è stato invece colto da Goya. Quindi, il classico di Kounellis non può essere confuso in alcun modo con il classicismo accademico con il quale lui è in completa rottura. Egli non concede margini di dubbio o di connivenza come accade per De Chirico prima e Mariani poi. Egli denuncia ogni effetto drammatico (nel senso retorico del termine) come borghese. Il “drammatico” che lui denuncia è dunque quello manierato, a cui egli contrappone il “tragico” che ha una profondità sacrale. E’ proprio nella ricerca di questa poeticità tragica, che scaturisce dalle contrapposizioni e dai recessi dell’animo umano, che va letta l’introduzione di elementi tratti dall’antichità classica nell’opera di Kounellis. L’artista greco insiste sulle maschere e sui volti anche in altre occasioni senza l’utilizzo della musica. Il volto è infatti un elemento fondamentale nella sua poetica. Egli afferma che la maschera greca ha la stessa funzione che ha nel teatro giapponese. La maschera non è qualcosa che si cambia a seconda della situazione, la maschera stabilisce il ruolo e l’identità. Essa è plasmata su quel ruolo e quindi in un certo senso essa contiene il destino stesso di quel personaggio. Spesso egli propone dei volti in gesso (calchi di statue antiche) esposti con delle striature di fuliggine, fatte probabilmente con il fumo delle candele. In un’altra situazione l’artista afferma che il fumo è cristiano. E in effetti tali opere sembrano riproporre la problematica romantica del contrasto tra età cristiana ed età antica. L’età antica aveva un rapporto con la natura che il cristianesimo ha distrutto, esso perciò si frappone come un’ombra tra noi e l’antichità classica. Il fumo che segna queste sculture sembra proprio questo frapporsi del cristianesimo a un pieno recupero dell’antichità classica.

Giulio Paolini

Giulio Paolini è nato a Genova ma si è presto trasferito a Torino. Anche lui, come Kounellis, ha iniziato la sua attività artistica nella seconda metà degli anni Cinquanta, influenzato dall’informale. La sua poetica però è decisamente diversa da quella del suo collega greco. Egli non ama particolarmente l’informale materico, ma all’opposto propende per le esperienze più intellettuali e mentalistiche. Infatti si rivolge dapprima a una pittura quasi monocroma fino ai primi anni Sessanta, quando comincia a introdurre l’impiego della fotografia. Giunge così a una prima svolta intorno al ’65 quando realizza una serie di opere sulla dialettica tra spazio percepito e soggetto percettore in relazione allo spazio della rappresentazione. Il suo lavoro acquista così fin da subito una portata speculativa che va nella stessa direzione delle ricerche concettuali che venivano svolte in quello stesso periodo dall’altra parte dell’oceano. In un suo libro, intitolato Idem, Paolini traccia una specie di anamnesi artistica, descrivendo lo sviluppo storico delle sue opere come tappe di un coerente sviluppo teorico. Questa è almeno l’impressione che si ricava dalle pagine dell’introduzione, scritte da un critico di eccezione, Italo Calvino, il quale ci racconta le varie fasi come se fosse una storia chiara e scorrevole, senza incertezze, né passi indietro. La storia incomincia dalla tela su cui si tracciano le semplici diagonali per individuarne il centro. Quelle diagonali sono già l’anticipazione della gabbia prospettica e perciò non sono qualcosa di ininfluente e neutrale. Esse costituiscono un elemento condizionante e quindi vanno esposte di per sé, vanno sottoposte allo sguardo critico del pubblico o come direbbe Calvino vanno messe garbatamente tra parentesi, “perché non si credano d’essere chissà cosa neppure loro” . Il passo successivo è stato quello di collocare una tela bianca, in modo da avvertirne il distacco dal telaio. Anche qui si critica un altro presupposto della pittura che viene dato per scontato e che va a costituire la forma “ideologica” in cui noi pensiamo lo spazio della rappresentazione. “La tela – scrive sempre Calvino – fa parte del quadro, ma non è il quadro” . La tappa successiva di questo itinerario di critica agli assunti dello spazio del quadro è costituita dal colore. Paolini affronta questo tema con due opere. In una si vede un barattolo incellofanato e disposto al centro del telaio e nel secondo, affinché non si creda di voler parlare solo di un colore, ma del colore in senso generale, l’artista genovese prende un campionario di colori e lo espone sempre incellofanato nello spazio del telaio. A questo punto però è venuto il momento di mettere sotto accusa il telaio stesso. Così in un’opera del 1962 Paolini presenta il retro di un quadro intelaiato al cui interno c’è un altro telaio e un altro ancora come in un gioco di scatole cinesi. Ora, chiariti i presupposti fisici, l’artista può tornare a dedicarsi alla critica dei presupposti prospettico-gemetrici che inficiano la concezione dello spazio della rappresentazione. Questa volta l’oggetto della critica non è il centro prospettico del quadro, ma la quadrettatura della superficie, che trasforma uno spazio “aperto” in un spazio circoscrivibile, descrivibile razionalmente e misurabile. Ma chi è l’operatore di questa parcellizzazione, se non l’uomo? E’ all’uomo, al soggetto percepente, il soggetto agente nell’azione e accogliente nella percezione che si riferisce il centro prospettico del quadro. E’ in linea con i suoi occhi che viene stabilito il piano dell’orizzonte. Ecco allora che l’uomo, come soggetto, fa il suo ingresso in questa analisi dello spazio della rappresentazione eseguito dall’artista. Nel 1963 realizza un’opera intitolata Orizzontale in cui c’è un quadro all’interno del quale sta rappresentato un uomo assolutamente anonimo (l’illustrazione è tratta da un libro di anatomia) con una striscia orizzontale che attraversa lo spazio della tela posta all’altezza degli occhi, stante ad indicare appunto la linea d’orizzonte. Il portare l’attenzione sul soggetto giunge al culmine nella famosa opera Giovane che guarda Lorenzo Lotto nel quale attraverso il semplice cambiamento del titolo si rovescia il cannocchiale della percezione. Non è certo appropriato a questa sede il compito di scandagliare tutta la produzione “analitica” di Paolini, dato che a noi qui interessa il suo rapporto col classico, un rapporto questo che è pressoché assente nelle prime opere dell’artista, a meno che non si voglia definire classica la divisione della tela con le diagonali o con la quadrettatura. In un secondo momento i riferimenti al classico divengono comunque espliciti e inequivocabili. E’ quell’uso dell’antico che si deve spiegare, ma per spiegarlo abbiamo bisogno di capire qual è l’impronta fondamentale della sua ricerca. Solo così potremo distinguere il suo approccio da quello degli altri artisti a lui coevi. Bastano infatti queste poche premesse per capire che Paolini non fa un uso lirico del classico, o che il classico per lui non è l’oggetto logoro e abusato del turismo da museo che va ridotto a vago simbolo della concezione occidentale dell’arte. Paolini ritrova il classico nella storia dell’arte e quindi l’uso del classico è funzionale alla sua critica dei pregiudizi estetici dello spettatore (ma anche dell’artista) che si avvicina alla tela o comunque all’opera scultorea. Nell’esame analitico condotto dall’artista i primi a essere presi in considerazione sono i classicismi della modernità, solo più tardi, si arriva all’antichità. Dentro questo gioco di rimandi con il passato affiora un atteggiamento citazionista, freddo, formale in cui il reperto o meglio la copia del reperto hanno un senso legato esclusivamente al loro ruolo nel grande teatro della storia dell’arte. Questo aspetto, che è all’inizio rigorosamente funzionale, finisce col cedere terreno a qualche tentazione estetizzante. Tuttavia anche quando indugia nell’estetica la connotazione dominante è quella del classico visto come forma espressiva tipica della cultura moderna e del suo stesso riferirsi al passato. Dunque potremmo concludere dicendo che Paolini per certi versi è il più freddo e rigoroso dei citazionisti; che in questa citazione l’oggetto classico viene abbassato a ready-made, anche, che pur in tale situazione il classico per freddo che possa risultare (e forse anche per quella sensazione di ordine e di garbo che trasmette) continua ad essere un valore deduttivo nella comunità artistica contemporanea.

Michelangelo Pistoletto

Pistoletto è il terzo esponente dell’arte povera da noi qui trattato. Diversamente dagli altri due casi le sue origini non affondano nell’informale, ma nel realismo pittorico. Sono ad esempio del 60 tutta una serie di autoritratti su fondo monocromatico dai toni metallici (bronzo, oro, argento, alluminio) in cui si vede questa figura che si staglia solitaria nel quadro lasciando molto spazio vuoto intorno. Tutto ciò è molto distante dal tradizionale concetto di autoritratto basato sull’inquadratura rinascimentale in cui la centralità spetta al busto. Qui la figura sta dritta in piedi come un’erma, non è ben riconoscibile, in un caso è addirittura voltata e accanto non ha niente; rimane un grande vuoto nella tela in cui non c’è niente. Queste prime opere sono da considerarsi importanti, specie se messe in paragone con quelle successive dei pannelli specchianti a cui l’artista deve la sua fama internazionale. Lì infatti questo processo giunge a compimento e al posto della figura dell’autoritratto dipinta espressionisticamente ci sono immagini fotorealistiche di persone qualunque e al posto del fondo monocromo dai toni metallici vi pone una superficie di metallo completamente specchiante. L’arte di questo periodo pone l’accento sulla melanconia del quotidiano. Tali figure vengono poste a grandezza naturale dando l’impressione di trovarcele davvero dinanzi a noi bloccate nel loro attimo di vita ordinaria, mentre si allacciano una scarpa, mentre si siedono un momento per riposarsi. Tutto questo ha degli addentellati con le tematiche della pop a cui l’artista giunge per via individuale in tempi non sospetti che qui non ci interessa approfondire. Alla metà degli anni Sessanta la sua attenzione si sposta anche agli oggetti, nascono così la serie degli Oggetti in nero o degli Oggetti in meno. E’ in questo periodo che inizia a usare anche gli scampoli di stoffa e che produce la Venere degli stracci. Quest’ultima, realizzata nel ’67 può considerarsi a buon diritto la prima opera di Pistoletto in cui compare il tema del classico. Infatti l’opera è realizzata con un calco di un’intera statua greca dipinta di vernice dorata che sta a sorreggere un grande mucchio di stracci multicolori. In tale operazione assistiamo all’impiego ormai tipico di questa generazione del calco come ready-made, come riduzione della statua classica ad oggetto, oggetto che pur sempre richiama il passato e che viene messo a contrasto con un materiale che non gli è proprio, rappresentato nel nostro caso dagli stracci. Gemano Celant pur dedicando un paragrafo a questa opera non si interessa minimamente alla problematica del classico ma casomai a quella della copia che ai suoi occhi costituisce un equivalente della duplicazione offerta dalla riflessione degli specchi. Ciò che lo interessa sono invece la tattilità dei colori e quindi della luce. Tutto ciò lascerebbe pensare che la presenza del classico nell’opera di Pistoletto – perlomeno in questa fase – vada considerata poco più di una coincidenza fortuita. Pistoletto però ritorna su questo tema. Verso la fine degli anni Sessanta il suo interesse si concentra sul teatro di strada con la compagnia Zoo. Ebbene anche in questo contesto, in un’occasione Pistoletto ripresenta la Venere degli stracci con la differenza che la Venere non è più incarnata da una riproduzione in cemento di una statua classica ma da una ragazza in carne e ossa che posa nuda nella stessa postura della Venere. Viene allora da pensare che una delle possibili chiavi di lettura di quest’opera possa essere cercata nel rapporto tra l’emblema della nuda femminilità esemplificata al suo grado massimo da Venere con la stoffa e il vestito esemplificati al loro grado minimo dal cumulo di stracci. Abbiamo così che il richiamo al classico funge sempre a gioco di contrasti e opposizioni, come ad esempio in Kounellis, ma che lo fa in senso emblematico e non per la rivendicazione di una qualche eredità classica. Si tratterebbe cioè di classico senza classicismo. Un ulteriore esempio di utilizzo di materiale classico di questi anni è costituito dalla statua etrusca dell’oratore che viene posto dinanzi a uno specchio, nell’opera intitolata L’etrusco del 1976. In questo un richiamo all’elemento classico in quanto tale è però ineliminabile. La scultura classica è non è stata scelta per il tema dell’oratoria ma per la sua plasticità classica, per quel suo braccio che si protende fino a toccare lo specchio, perché rappresenta l’identità classica messa davanti allo specchio; questa volta veramente duplicata dall’immagine riflessa. Dobbiamo però notare che anche qui si tratta di un fatto occasionale che non è ancora sufficiente a delineare una poetica pistolettiana del classico. Un’altra operazione di questo genere, in cui il richiamo al classico, se lo è stato fatto consapevolmente, è ancor più evanescente è costituito da una rappresentazione teatrale, Anno Uno del 1981, in cui gli attori sorreggono con le loro teste delle strutture architettoniche. Il riferimento più immediato che viene in mente al vedere una cosa simile è quello alle cariatidi dell’acropoli di Atene. E’ difficile che l’artista stesso possa non essersene accorto. In special modo, se si pensa che lui è quello stesso artista che aveva sostituito alla Venere una donna, è facile pensare che possa aver sostituito le cariatidi con altrettante persone in carne ed ossa. Fin qui le opere legate al ciclo dell’arte povera. Nei primi anni Ottanta però l’arte di Pistoletto subisce una svolta. Inizia una nuova fase dedicata alla scultura in cui propone delle grandi opere in pietra basate sul tema della composizione di differenti frammenti scultorei. Per quel che attiene il discorso del classico le opere più significative sono quelle che si situano all’inizio di questo nuovo ciclo. In particolare la serie intitolata Il gigante, in realtà si tratta di un gruppo di opere che hanno più o meno lo stesso soggetto e lo stesso titolo, propone una figura appunto gigantesca composta dalla sovrapposizione di un torso maschile a un pezzo di statua femminile e così via. In questo tipo di operazioni la questione del classico assume un rilievo fondamentale anche perché non si presenta solo la classicità come citazione nella forma della copia in cemento o in gesso che sia, ma si presenta un richiamo al classico come imitazione dell’antico e del classicismo rinascimentale michelangiolesco nella forma di una ripresa stilistica. Ci troviamo perciò a tutti gli effetti con una forma tipica di classicismo. In tale impostazione dicevamo si avverte molto fortemente l’influsso della scultura michelangiolesca che emerge con una forma e con una monumentalità del tutto inaspettata. Si potrebbe dire che se in questo momento si assiste in Italia al ritorno alla pittura, in “Michelangelo” Pistoletto si assiste al ritorno alla scultura. Una scultura che si richiama al cuore stesso della tradizione scultorea evocando vagamente la scultura classica greca, quella ellenistica apprezzata già nel Rinascimento in opere come il Torso Belvedere, che costituirono un modello per Michelangelo, in tutto trattato con la tecnica del non finito michelangiolesco. Ci troviamo quindi con una tradizione classica che si avviluppa su se stessa. Tra l’altro nell’evocazione del Torso Belvedere, si ricorda come già il classicismo cinquecentesco avesse già scoperto l’estetica del frammento in cui la potenza emanata dai muscoli in tensione non si perde per effetto dell’incompletezza della statua, ma al contrario aumenta nel sublime gioco dell’immaginazione. In questo senso Michelangelo Pistoletto esalta queste intuizioni già presenti in nuce all’interno dell’estetica rinascimentale-manierista portandole a un esito compositivo che allora non sarebbe ammissibile ma che in qualche modo ricorda i giochi di corpi scolpiti da autori come il Giambologna. Tuttavia rimane da chiedersi se si è ancora nel territorio dell’avanguardia o si è già passati in quello, non tanto del citazionismo, ma casomai della Transavanguardia. Infatti la successiva opera scultorea di Pistoletto, pur non avendo mai aderito alla transavangurdia presenta quel mix di neo-simbolismo e neo-espressionismo che sono la chiave di quest’ultima e in cui le istanze classiciste vanno rapidamente scomparendo.

Claudio Parmigiani

L’arte di Parmiggiani, pur movendosi fuori dal gruppo dell’arte povera ha una storia simile a quella dei poveristi. Parmiggiani comincia la sua esperienza artistica a cavallo tra la fine degli anni Cinquanta e i primi anni Sessanta con l’informale. Dopodiché egli viene a contatto con la nozione di ready-made anche se, in un primo momento, lo fa in un maniera che può sembrare in qualche modo debitrice del new-dada americano. Fin dalle prime opere però ci accorgiamo di una fondamentale differenza tra il suo impiego degli oggetti e quello che ne fa il new dada. Egli infatti ne fa un uso tendente al poetico, all’associazione colta di elementi che hanno di per se un carattere simbolico. Tutto ciò è molto lontano dalla semplice composizione di oggetti banali. Lo spessore simbolico, fin troppo smaccato, degli oggetti che compone, lo porta subito verso un tipo di arte caratterizzata da una compiaciuta erudizione. Questo lo avvicina a una pratica citazionista che però non implica il ritorno alla pittura. Nei disegni di Parmiggiani si può seguire bene questo cammino. Si vede infatti che l’artista parte da schizzi astratti che pian piano divengono forme umane che stanno sospese nello spazio. In queste assistiamo a una forte tematizzazione del rapporto luce ombra che diverrà un elemento simbolico esplicito in alcuni disegni successivi in cui possiamo osservare uomini che lottano con la propria ombra o tentano di fustigarla. Tralasciando il fatto che tali temi si prestano ad una lettura psicanalitica fin troppo scontata è da osservare il fatto che l’artista fin dagli anni Settanta indulge in disegni di carattere simbolista che preannunciano i dipinti degli anacronisti, anche se lui si rifiuterà sempre di tornare alla pittura figurativa. Dicevamo all’inizio che l’opera di Parmiggiani è affine per certi versi a quella dell’arte povera, infatti, nel 1968 crea opere come lo Zoo geometrico che si pongono sul versante del reimpiego del naturale o del rapporto tra naturale e artificiale su cui lavorano in quel momento anche artisti come Pascali, Penone e Gilardi. Questa tematica viene proseguita in opere come Malanngan del 1972, ma a partire dagli anni Settanta Parmiggiani produce opere che hanno per oggetto l’arte stessa, anche se ciò viene fatto a volte con dei wiz e non con un atteggiamento analitico. Queste opere hanno un sapore più concettualeggiante e tra esse possiamo ricordare Adagio musicale del 1970, in cui viene posta una lumaca su un pentagramma, Tela su tela dello stesso anno, in cui vengono sovrapposte due tele bianche, le Delocazioni, in cui si lasciano ammirare gli spazi bianchi lasciati dalle tele tolte. In un’altra operazione intitolata Versunkenheit del 1975 vengono esposte in una galleria solo tele bianche. Fin qui sembrerebbe esserci un intento analitico che però presto dilegua verso un atteggiamento citazionistico con operazioni come Sineddoche del 1976, in cui espone una riproduzione del quadro di Dosso Dossi, nel quale si vede Giove che dipinge su di una tela bianca alcune farfalle e, accanto a tale riproduzione, una tela con le farfalle dipinte con davanti uno sgabello e una tavolozza (ovvero la tela che sta dipingendo Giove). Se già l’opera di Dossi era un lavoro di arte sull’arte, in quanto vi veniva rappresentata l’attività del dipingere e quindi era una sorta di arte al quadrato, quella di Parmiggiani è un’arte al cubo, in quanto cita Dosso Dossi che cita la pittura. Un discorso simile si ha con De perspectiva del 1977, in cui mostra tre tavolini imbanditi, uno più piccolo dell’altro, come oggetti reali che vengono portati fuori dallo spazio illusorio della simulazione prospettica e in cui il restringimento delle dimensioni, che nella prospettiva ha un senso, si perde nell’istallazione reale. Da questi aspetti meta-artistici l’artista prende il via per una serie di riferimenti alla cultura del passato (in particolar modo rinascimentale) che viene ricordata in vari modi (costellazioni, musiche, labirinti). Tutto ciò prepara infine la svolta degli anni Ottanta in cui i protagonisti della maggior parte delle sue opere divengono i calchi in gesso dei volti classici. Questi vengono variamente trattati, colorandoli e accostandoli ad altri elementi, che possono essere tavolozze colorate, farfalle, rami, colori ecc. Parmiggiani arriva così alla creazione di un proprio esclusivo linguaggio compositivo poetico basato sulla citazione colta, che ha come riferimento costante la classicità. Detto questo, bisogna anche ricordare che questi elementi che emergono alla fine degli anni Settanta e negli anni Ottanta non sono completamente nuovi alla produzione dell’artista. Già nel 64 aveva realizzato un’opera intitolata La mano, in cui poneva alcuni frammenti di una mano in gesso sopra a stralci di uno spartito musicale e l’anno seguente aveva realizzato un’opera, La notte in cui usava il calco in gesso di viso femminile. Questi elementi sono quindi riemersi e hanno finito, nel caso del calco con il diventare dominanti anche se all’interno di un processo che li ha portati a una maturazione poetica. Il classico dunque si ritrova sparso già nelle radici dell’opera di Parmiggiani, prima con riferimenti sporadici e poi con il riferimento alla cultura rinascimentale. Ma qui ancora il classico appare come ripresa di un precedente classicismo o del Rinascimento stesso come momento classico e cioè massimo della cultura europea. Diversamente dal 1979 in poi il classico come antichità greco-romana viene chiamato in causa direttamente come mezzo per articolare un grande ventaglio di evocazioni erudite. Si pensi a un’opera come Phoebus in cui compare il calco di un busto femminile dipinto in parte di giallo, come a sottolineare la luce che la illumina, con una conchiglia marina posta vicino all’orecchio, come quando si vuole ascoltare il cosiddetto “rumore del mare”, il quale sta adagiato su di un piano sul quale sta anche una tavolozza, sulla quale giacciono oltre ai colori alcune farfalle.

Luca Maria Patella

L’opera di Luca Maria Patella comincia negli anni Sessanta con un interesse per mezzi come la fotografia che lo spingono a fare sperimentazioni molto estranee all’arte pittorica. In Patella non c’è una discendenza dal quadro e dalla pittura. Il suo approccio è legato ad altri media, alla fotografia, all’istallazione, alla performance. Patella assume come implicita la lezione duchampiana e si rapporta a una sperimentazione in cui oggetti e situazioni sono trattati come opere d’arte al di là di una loro presunta esteticità. Le sue, più che opere nel senso tradizionale, sono operazioni. Qui gli aspetti della documentazione e dell’esperienza (anche semplicemente intellettuale) hanno la meglio sulla fisicità della scultura e della pittura. Patella comincia la sua attività con una serie di sperimentazioni su base fotografica come il Mare firmato (1965) in cui si vede una foto del mare con impressa la sua firma attraverso una tecnica puramente fotografica. L’anno seguente sempre con la tecnica fotografica realizza Si fa così, un’opera dai toni quasi pop. Nel 1967 realizza un filmato e una serie di fotografie intitolate Terra Animata in cui si assiste a una serie di misurazioni del terreno di tipo quasi concettuale. L’attenzione di Patella però, a differenza dei concettualisti americani, è più legato ai comportamenti che non al problema analitico della misurazione. Non a caso sempre in quello stesso periodo realizza una serie di opere che hanno come comune sottotitolo la dicitura Analisi del comportamento. La sperimentazione continua nel 1969-1970 con i lavori sulle immagini semisferiche e con l’uso di diffusori acustici. Il che significa che Patella va interessandosi della cosiddetta arte multimediale. Tale ricerca sfocerà nella famosa Foresta parlante (il cui titolo esatto è Un boschetto di Alberi Parlanti e profumati, e di Cespugli Musicali, sotto un Cielo) esposta alla Walzer Art Gallery di Liverpool. A questo punto le installazioni multimediali o “parlanti” si moltiplicano durante gli anni Settanta assieme alle performance. Allo stesso modo prosegue anche la sperimentazione fotografica con le fotografie stenopeiche. Nel corso degli anni Ottanta invece il percorso di Patella si fa più attento alle problematiche storiche assimilando alcuni aspetti della cultura della citazione senza però avere alcuna simpatia per il ritorno alla pittura. Si accentuano piuttosto gli interessi per gli aspetti psicanalitici, per le simbologie, i giochi di parole, i motti di spirito. Tracce di questa sua attenzione è testimoniata dai lavori sul letto di Duchamp o dall’interesse per Diderot. E’ in questo momento che alcuni elementi legati al classico emergono nell’arte, che si fa sempre più erudita, di Luca Maria Patella. L’attenzione per il classico nella sua opera va intesa relativamente ai due sensi del termine e cioè quello legato all’antichità e quello legato al classicismo. Si può dire che Patella si imbatte più spesso nel classicismo di quanto non accada con l’antico che, tuttavia, non ha un’importanza minore. Partendo dal classicismo non si può fare a meno di notare le citazioni tempietti classicistici neo-rinascimentali nella sua opera. Molto spesso le sue installazioni associano a elementi attuali altri dal tono quasi antiquario (si pensi ad esempio alle strutture in legno concave in cui sono rappresentate le volte stellate). Un’opera in cui questo dialogo col classicismo acquista un valore rilevante si ha nel caso del lavoro dedicato alla caduta di Fetente, un’opera giovanile di Gian Battista Piranesi. A prima vista più che un’opera sembra uno studio storico-artistico. Vi si analizzano con scrupolo tutti gli elementi iconografici. Il disegno piranesiano infatti è denso di simbolismi che si sovrappongono modo tale da non renderli neanche chiaramente leggibili. Patella isola e spiega i diversi elementi iconografici e tenta anche di fornire una possibile ricostruzione del quadro d’insieme dell’opera. La spiegazione che però ci fornisce Patella non è una spiegazione storica o iconologia ma è una spiegazione di tipo psicanalitico. Qui, nelle alchimie linguistiche tipiche dell’interpretazione psicologica e in assenza di possibili riscontri non sappiamo mai dove finisce l’indagine “scientifica” dell’opera e dove comincia il contributo creativo del Patella artista. A Patella non interessa chiarire questa ambiguità. Un caso invece di riferimento diretto al classico inteso come antico lo abbiamo in una performance che l’artista ha tenuto tra le rovine della Villa di Orazio a Licenza. Il titolo dell’opera è Exegi monumentum aëre perennius. Esso è ripreso dalla frase latina “exegi monumentum aere perennius” che vuol dire “ho costruito un monumento più duraturo del bronzo”, ma che ora, grazie all’aggiunta della dieresi sulla “e” di “aere” viene a mutare il suo significato così: “ho costruito un monumento più duraturo dell’aria”. La frase subisce così un repentino scombinamento grazie a un motto di spirito da cui scaturisce una possibilità creativa di reinventare la situazione. Nella performance una portatrice d’acqua in abiti antichi si aggira tra i ruderi, mentre una coppia di attori declama una serie frasi latine opportunamente interpolate da Patella. Come si può vedere da questi due soli esempi il rapporto di Patella con il classico è diverso da tutti gli altri. Per lui il classico non si traduce nella copia in gesso da usare come ready-made, non è nemmeno un riferimento per sculture o altro genere di oggetti. Esso è più che altro un repertorio culturale in cui entrare con acuta ironia sia per interpretare che scombinare le carte. Patella quindi non è neanche propriamente un citazionista ma è casomai una strana forma di umanista che si aggira divertito nei labirinti del sapere.