Peter Greeneway

Peter Greeneway

Peter Greeneway è certamente più noto come regista cinematografico che come artista visuale. Di fatto però Greeneway ha compiuto i suoi studi all’accademia di belle arti e il suo interesse per l’arte visiva, pur passando in secondo piano rispetto alla produzione cinematografica, non è mai venuto meno, anzi l’influsso della cultura delle avanguardie ha contribuito in maniera determinante alla formazione di un personale e particolarissimo stile registica, che lo contraddistingue da tutta la scena cinematografica a lui contemporanea. Greeneway dopo gli studi d’arte svolge un lungo periodo di apprendistato (circa otto anni) nel campo del documentario. Tipici di questo periodo sono i documentari di carattere scientifico-divulgativo e quelli relativi alle nuotatrici di nuoto artistico. Entrambi i temi diverranno due elementi tipici della sua produzione cinematografica. Contemporaneamente Greeneway produce anche dei cortometraggi di carattere spiccatamente concettualeggiante. Anche in questo caso, dopo alcuni primi tentativi analitici, in cui la cinepresa si limita a registrare vari generi di variazioni, si passa ad un atteggiamento colto in cui si raccontano storie paradossali infarcite di elementi eruditi. Sul piano visuale invece Greeneway, produce una serie di mappe apparentemente di bird-watching in cui si assiste ad una collezione di ricognizioni che possono essere lette come variazioni su uno stesso tema che hanno quasi un carattere seriale e allo stesso tempo casuale, a cui però possono essere attribuiti dei significati più profondi. Questi significati stratificati diverranno una delle caratteristiche salienti della sua poetica. Sotto un velo di eventi apparentemente sconnessi, assurdi o paradossali, si nasconde come in un rebus un messaggio cifrato che a volte può essere allegorico e altre volte simbolico. Come nei rebus la scena vista a uno sguardo superficiale può sembrare astrusa e illogica. Elementi e personaggi vengono caratterizzati come se fossero i soggetti di un mazzo di carte. I personaggi non hanno alcuno spessore psicologico, sono maschere che hanno caratterizzazioni fisse. Ciò che conta è il gioco di queste caratterizzazioni che costituisce una trama di segni da interpretare. La surrealtà in lui ha un significato, la realtà no. Greeneway è una sorta di scriba che produce composizioni di geroglifici, laddove cercare la personalità di un geroglifico è un’operazione senza senso. Da questo punto di vista la poetica del regista-artista inglese si pone sullo stesso sentiero della pittura colta italiana. Si parte da un recupero della storia di tipo concettuale per approdare a un compiaciuto intrigo di riferimenti storici. C’è però una differenza fondamentale tra l’uno e gli altri: se l’anacronismo praticando il ritorno alla tradizione accademica della pittura oleografica, di fatto esce dall’avanguardia con un atto di tipo reazionario o comunque restaurativo dei valori artistici più retrivi, l’atteggiamento di Greeneway non si concreta mai in un ritorno verso qualche genere tradizionale o qualche pratica registica retriva e rassicurante. I suoi film sono sempre sperimentali, pongono sempre nuove sfide allo spettatore. Greenaway anche quando fa il film storico non lo fa recuperando il cliché del film storico a cui ci ha abituato l’industria culturale, ma propone un’operazione che è sempre straniante e, in certo modo, surreale. Il percorso di Greenaway quindi non si svolge nel senso del ritorno all’ordine, come avviene in Italia negli anni Ottanta, ma in quello del post-concettuale che continua ad essere presente tanto in Inghilterra come in America. Per quanto concerne invece le forme in cui il recupero del classico si m manifesta, all’interno di questa poetica, possiamo dire che esso si dà a partire dal film che lo ha reso famoso e cioè The Draughtsman’s Contract, che tradotto letteralmente sarebbe “Il contratto del disegnatore”, ma che stato distribuito nelle sale italiane con il più suggestivo titolo I misteri del giardino di Compton House. La storia ruota infatti attorno ai disegni (fatti da Greenaway stesso) di varie prospettive della villa Compton, che un disegnatore è chiamato a svolgere. Da questi emerge che nella villa c’è un abitante in più che durante il giorno passa inosservato come statua vivente. Il disegnatore quindi viene a conoscenza del segreto, senza sapere però che lui è la vittima predestinata di un intrigo, ordito dalla donna (e dalla figlia) con cui aveva stipulato un contratto. Il disegnatore dunque crede di assistere all’omicidio del padrone della villa (l’uomo statua), mentre egli invece sta venendo usato per un macchinoso piano, in cui deve fornire un erede ai signori della villa e poi morire. Nei disegni si avverte tutto l’interesse di Greeneway per il tema minimalista delle variazioni, che risponde al minimalismo musicale della colonna sonora creata da Micheal Nyman, in cui vengono presi frammenti di Purcell o altri autori barocchi e vengono rimontati modularmene. In tutto il film domina un atmosfera sospesa tra dialoghi di fredda cortesia e visioni del giardino barocco che a più critici hanno fatto ricordare Marienbad di Resnais. Il film è storico, ma è ambientato nella fine del Seicento; il classico dunque non è da riferirsi all’ambientazione storica, quanto al tema delle statue e al nodale riferimento mitologico che viene citato dalla protagonista verso la fine del film. Si tratta di un mito di morte riferito all’incombente morte del disegnatore. Si tratta del mito di Proserpina che, aggirandosi in un giardino, finisce preda di Plutone dio dell’Ade. Nel film successivo a questo il riferimento al classico è singolarmente messo in luce proprio dal titolo italiano che viene dato all’opera. Il film s’intitolava, in inglese, A Zed and Two Noughts, letteralmente Una zeta e due zeri, ma è stato reso in italiano con Lo Zoo di Venere. In questo caso il titolo inglese spiega un aspetto del film, mentre quello italiano ne spiega un altro. Riunendoli in un unico concetto possiamo dire che Venere è la Zeta e che è alle prese con due gemelli che sono i due Zeri. Venere è la Natura che è l’elemento dominante dello Zoo e agisce come nascita e decomposizione. In questo film comunque l’aspetto “classico” non va molto oltre questo riferimento mitico. Il film successivo a questo è invece quello più palesemente ricco di riferimenti al classico che Greenaway abbia mai prodotto. Il suo titolo è Il ventre dell’architetto (questa volta è la traduzione letterale del titolo inglese). L’opera tratta la storia di un architetto americano sposato a una donna italo-inglese che viene a Roma per curare una propria esposizione all’altare della patria. Stando a Roma scopre tre cose che si sviluppano contemporaneamente: 1) che nella sua pancia si sta sviluppando un tumore, 2) che nella pancia della moglie sta nascendo una nuova vita, 3) che tra la moglie e un antipatico architetto italiano sta nascendo una relazione che sta portando alla nascita di una nuova unione che sostituirà quella con lui. Questo triplice sviluppo è dunque caratterizzato dal simultaneo procedere verso la nascita, verso la morte e verso lo scambio (l’uomo giovane sostituisce il vecchio). Il tutto è unito dal tema della cupola, della concavità dell’arco. La cupola, prodotto tipico della cultura architettonica romana, diviene metafora del grembo materno, della pancia (= belly, in inglese, ha una singolare assonanza con “bell” = campana, quindi elemento concavo). La cupola diviene quindi una metafora di tutto il ciclo naturale di morte e rinascita, che è anche ciclo di positivo-negativo. Infatti qui l’elemento positivo è rappresentato dalla genuina ispirazione classicistica dell’architetto americano che ama le rovine romane e in particolar modo il Pantheon e la Villa Adriana, contrapposto all’elemento negativo, rappresentato dal giovane architetto italiano che invece ama il classicismo retorico fascista e vuole stornare i fondi dei restauri per consolidare le opere del Foro Italico. La distruzione personale del protagonista inoltre scorre parallela allo sfacelo delle condizioni di conservazione dei monumenti antichi.

Film questo più piano e intelligibile dei precedenti deve probabilmente la sua maggiore chiarezza a una volontà di impostazione classica e quindi sobria e semplice di tutto il film; una volontà questa a cui si adegua anche la musica che composta, non più da Nyman, ma da Wim Mertens che propone brani di un minimalismo chiaro, semplice e a volte monumentale.

Dopo questa esperienza di comprensibilità, Greeneway torna decisamente verso la scrittura cifrata con Drowing by Numbers (= “disegnando con i numeri”, titolo riferito probabilmente a un noto gioco di enigmistica in cui compare una figura man a mano che si uniscono i punti numerati) che è stato reso in Italia con Giochi nell’acqua, senza più tornare apertamente a temi classici .

Tolti quindi i film, rimane ancora un’opera, o si direbbe meglio, un intervento in cui Greenaway mostra il suo interesse per il classico. L’opera è La cosmologia di Piazza del Popolo a Roma. Ci troviamo ancora alle prese con l’aspetto classico della città eterna a cui va aggiunto in particolare quello neo-classico di piazza del Popolo completamente risistemata dal Valadier. Ritorniamo cosi al tema della struttura circolare, a cui si legano per analogia la circolarità dei movimenti dei pianeti e dei cieli e dove al centro di tutto sta, come se fosse l’asse di una merdiana l’antico obelisco egizio che domina la piazza.